La questione sulla fallibilità delle società partecipate è stata oggetto di una serie di decisioni dei tribunali fallimentari che in base ad approcci interpretativi diversi giungono a soluzioni che sono diametralmente opposte. Un punto fermo (e di arrivo) è stato impresso dalla Cassazione. La Cassazione fornisce una chiave di lettura che parte dal principio giurisprudenziale costantemente enunciato secondo cui una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale. Da qui il ragionamento prevalentemente ispirato al criterio tipologico tradizionale privatistico che afferma che sono assoggettabili a fallimento le società a partecipazione pubblica indipendentemente dall’effettivo esercizio di un’attività, poiché esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione e non dal concreto esercizio dell’attività, a contrario, per quanto accade con l’imprenditore individuale il quale è identificato dall’effettivo esercizio dell’attività; mentre per le società è lo stesso statuto a stabilirlo. Sulla scia del fenomeno della societarizzazione dell’organizzazione pubblica la Cassazione interpreta la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di “perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico”, nel senso che le società pubbliche e gli enti partecipanti si assumano i rischi (e direi anche i benefici) connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall’ordinamento. La peculiarità che invece ha favorito la teoria dell’esenzione dal fallimento era rappresentata dal fatto che la società partecipata oltre che «riqualificarsi in ente pubblico» , svolgeva servizi pubblici essenziali la cui “essenzialità la rendeva immune dal fallimento come, ad esempio, nel caso di una società per azioni esercente il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani partecipata esclusivamente da enti pubblici, non già su base volontaristica.

Crisi e insolvenza delle società partecipate tra bisogni essenziali e finanza locale

CRISMANI, ANDREA
2016-01-01

Abstract

La questione sulla fallibilità delle società partecipate è stata oggetto di una serie di decisioni dei tribunali fallimentari che in base ad approcci interpretativi diversi giungono a soluzioni che sono diametralmente opposte. Un punto fermo (e di arrivo) è stato impresso dalla Cassazione. La Cassazione fornisce una chiave di lettura che parte dal principio giurisprudenziale costantemente enunciato secondo cui una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale. Da qui il ragionamento prevalentemente ispirato al criterio tipologico tradizionale privatistico che afferma che sono assoggettabili a fallimento le società a partecipazione pubblica indipendentemente dall’effettivo esercizio di un’attività, poiché esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione e non dal concreto esercizio dell’attività, a contrario, per quanto accade con l’imprenditore individuale il quale è identificato dall’effettivo esercizio dell’attività; mentre per le società è lo stesso statuto a stabilirlo. Sulla scia del fenomeno della societarizzazione dell’organizzazione pubblica la Cassazione interpreta la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di “perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico”, nel senso che le società pubbliche e gli enti partecipanti si assumano i rischi (e direi anche i benefici) connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall’ordinamento. La peculiarità che invece ha favorito la teoria dell’esenzione dal fallimento era rappresentata dal fatto che la società partecipata oltre che «riqualificarsi in ente pubblico» , svolgeva servizi pubblici essenziali la cui “essenzialità la rendeva immune dal fallimento come, ad esempio, nel caso di una società per azioni esercente il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani partecipata esclusivamente da enti pubblici, non già su base volontaristica.
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