Intento di questa ricerca è indagare un lato pressoché inesplorato nella critica su Levinas: il suo rapporto con la dottrina kantiana del male radicale. Se la relazione con Kant è già stata indagata, anche per le esplicite ascendenze rivendicate da Levinas stesso, il nodo aporetico del male radicale crediamo possa essere il filo rosso per ripercorrere il cammino del filosofo ebreo di origine lituana. E per sorprendere questo tema crediamo ci si debba porre in ascolto non solo dell’actu signato dei testi levinasiani, ma soprattutto dell’actu exercito. Un’ermeneutica dei testi che vorrebbe essere fedele a un preciso monito kantiano: «Mi limito ad osservare come non vi sia nulla di insolito […] nel fatto di riuscire ad intendere l’autore in questione magari meglio di quanto egli intendesse se stesso; può infatti accadere che egli non abbia sufficientemente determinato il proprio concetto, con la conseguenza di parlare talvolta, o anche pensare, in modo opposto ai propri intendimenti» (Critica della ragion pura, A314 B370). Vale a dire: sorprendere i luoghi ove Levinas discute la cosa stessa che sta sotto il nome di male radicale, e che può presentarsi sotto altri nomi. Di qui la scelta di ricostruire innanzitutto i lineamenti della concezione kantiana (capitolo I), per poi (capitolo II) analizzare le opere giovanili di Levinas, le opere della maturità (capitolo III), per finire con i testi nei quali Levinas discute de jure il nodo del male radicale e delle forme da esso assunte dopo quella cesura della storia che va sotto il nome di Shoà. Al punto che risulta ipotizzabile la congettura che Levinas sia il pensatore che più ha ripensato Kant (e il suo primato della ragion pratica) dopo il male assoluto della Shoà. L’intento ultimo di Levinas non è stato forse di interrogare alcuni problemi kantiani (la critica alla metafisica razionalistica, il problema del rapporto tra fede e morale, la pensabilità del concetto di Dio) dopo Auschwitz? Una domanda che sembrerebbe plausibile se pensiamo che Altrimenti che essere, alla luce di una autointepretazione di Levinas stesso, potrebbe essere letto come un ripensamento delle antinomie della Dialettica trascendentale. Ma allora, l’umano come si disegna in Levinas non è una ritrascrizione del Giobbe kantiano? Per usare una intuizione di Giovanni Moretto, anche Levinas rientrerebbe di diritto in quella storia dell’antropodicea che ha il suo padre moderno nel Giobbe di Kant.
-il male radicale tra Kant e Levinas
NODARI, FRANCESCA
2008-01-01
Abstract
Intento di questa ricerca è indagare un lato pressoché inesplorato nella critica su Levinas: il suo rapporto con la dottrina kantiana del male radicale. Se la relazione con Kant è già stata indagata, anche per le esplicite ascendenze rivendicate da Levinas stesso, il nodo aporetico del male radicale crediamo possa essere il filo rosso per ripercorrere il cammino del filosofo ebreo di origine lituana. E per sorprendere questo tema crediamo ci si debba porre in ascolto non solo dell’actu signato dei testi levinasiani, ma soprattutto dell’actu exercito. Un’ermeneutica dei testi che vorrebbe essere fedele a un preciso monito kantiano: «Mi limito ad osservare come non vi sia nulla di insolito […] nel fatto di riuscire ad intendere l’autore in questione magari meglio di quanto egli intendesse se stesso; può infatti accadere che egli non abbia sufficientemente determinato il proprio concetto, con la conseguenza di parlare talvolta, o anche pensare, in modo opposto ai propri intendimenti» (Critica della ragion pura, A314 B370). Vale a dire: sorprendere i luoghi ove Levinas discute la cosa stessa che sta sotto il nome di male radicale, e che può presentarsi sotto altri nomi. Di qui la scelta di ricostruire innanzitutto i lineamenti della concezione kantiana (capitolo I), per poi (capitolo II) analizzare le opere giovanili di Levinas, le opere della maturità (capitolo III), per finire con i testi nei quali Levinas discute de jure il nodo del male radicale e delle forme da esso assunte dopo quella cesura della storia che va sotto il nome di Shoà. Al punto che risulta ipotizzabile la congettura che Levinas sia il pensatore che più ha ripensato Kant (e il suo primato della ragion pratica) dopo il male assoluto della Shoà. L’intento ultimo di Levinas non è stato forse di interrogare alcuni problemi kantiani (la critica alla metafisica razionalistica, il problema del rapporto tra fede e morale, la pensabilità del concetto di Dio) dopo Auschwitz? Una domanda che sembrerebbe plausibile se pensiamo che Altrimenti che essere, alla luce di una autointepretazione di Levinas stesso, potrebbe essere letto come un ripensamento delle antinomie della Dialettica trascendentale. Ma allora, l’umano come si disegna in Levinas non è una ritrascrizione del Giobbe kantiano? Per usare una intuizione di Giovanni Moretto, anche Levinas rientrerebbe di diritto in quella storia dell’antropodicea che ha il suo padre moderno nel Giobbe di Kant.Pubblicazioni consigliate
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