In Italia gli ospedali psichiatrici sono stati chiusi nel 1978 dalla legge Basaglia. La legge afferma il diritto dei “matti” di vivere nella città, immaginata in grado di mettere in discussione i miti del benessere e della produttività per fare spazio a chi ne incarna la contraddizione e per questo è emarginato. Il dibattito su psichiatria e antipsichiatria, sviluppato dagli anni ’60, coinvolge dunque le pratiche urbane, rileggerlo porta a interrogarsi su come si sia sviluppata la discussione interdisciplinare sulla città. Un caso emblematico è l’ex O.P. di Gorizia, dove Basaglia inizia la sua battaglia e di cui Sartre dirà: “Se volete vedere una realtà dove si elabora un sapere pratico, andate a Gorizia”. Il “sapere pratico” non può che confrontarsi con la realtà fisica dell’architettura del manicomio, che Foucault descrive come dispositivo terapeutico e di potere, manifestando sfiducia nella possibilità dell’architettura di invertirne il senso e sollevando l’architetto dalle responsabilità rispetto a quei Crimini di pace di cui scrive nell’omonimo libro di Basaglia. La storia dell’ospedale goriziano sembra, in parte, confutare questa impotenza dell’architettura, raccontando quanto la negazione dell’istituzione muova anche dalla trasformazione fisica dei luoghi, in parallelo a un intenso confronto tra lo psichiatra italiano e intellettuali e architetti, soprattutto francesi. Già il primo manicomio goriziano, del 1911, nato quando Gorizia è città austroungarica, risente del ricco dibattito sviluppatosi intorno allo Steinhof viennese, in quel momento storico, descritto da Cacciari nel suo Dallo Steinhof, in cui psichiatria e architettura rappresentano due ambiti chiave nella costruzione della modernità europea. Il dibattito su libertà e controllo si addensava, allora, nello studio di variazioni di tipi di spazi interni, dalle stanze di prima classe, in cui il modello sono le camere d’albergo, ai dormitori di terza classe, fino ai camerini di contenzione o celle di isolamento. Una visione classista, che però attribuiva un ruolo allo spazio nel processo di cura. Mentre Foucault, che non prende mai in esame questi istituti, descrive la struttura spaziale del manicomio come una trasposizione del panopticon, in cui la negazione di uno spazio privato e l’azzeramento dello status sociale dell’internato sono fondamentali per l’efficacia del dispositivo. Il primo manicomio goriziano, raso al suolo dai bombardamenti della Prima guerra mondiale, è riscostruito, sullo stesso impianto planimetrico, sotto il Fascismo. Nel ‘61 vi arriva, come giovane direttore, Franco Basaglia. La mitologia cresciuta intorno alla rivoluzione basagliana, attraverso immagini di reti e cancelli divelti, ci ha tramandato la traccia di un gesto radicale, che nega qualsiasi possibilità di riforma dell’istituzione. Questo ha messo in ombra le trasformazioni del complesso progettate da Basaglia e in parte realizzate, connettendosi, in certa misura consapevolmente, alla ricerca degli studiosi austriaci sul ruolo della privacy. La riforma dell’architettura psichiatrica è trattata da Basaglia anche in diversi scritti: nel 1967 in un articolo per il numero speciale su Architettura e psichiatria, della rivista “Recherches” del gruppo CERFI di Guattari, nel 1968 nella relazione per la Commissione ministeriale per la trasformazione delle strutture ospedaliere, nel 1980, nell’introduzione di un libro su architettura e medicina. Testi dimenticati perché proprio l’esito della battaglia iniziata a Gorizia ha contribuito a interrompere quel dialogo tra architettura e psichiatria: con l’architettura per la psichiatria istituzionalizzata (messa fuori legge dalle 180) si e  cessata anche la ricerca di architettura per la salute mentale. Quel dialogo interrotto pone oggi questioni ancora aperte rispetto allo spazio di guarigione che una società produce e immagina per chi non e  considerato “sano”.

Un posto conveniente per gente sconveniente

giuseppina scavuzzo
2020-01-01

Abstract

In Italia gli ospedali psichiatrici sono stati chiusi nel 1978 dalla legge Basaglia. La legge afferma il diritto dei “matti” di vivere nella città, immaginata in grado di mettere in discussione i miti del benessere e della produttività per fare spazio a chi ne incarna la contraddizione e per questo è emarginato. Il dibattito su psichiatria e antipsichiatria, sviluppato dagli anni ’60, coinvolge dunque le pratiche urbane, rileggerlo porta a interrogarsi su come si sia sviluppata la discussione interdisciplinare sulla città. Un caso emblematico è l’ex O.P. di Gorizia, dove Basaglia inizia la sua battaglia e di cui Sartre dirà: “Se volete vedere una realtà dove si elabora un sapere pratico, andate a Gorizia”. Il “sapere pratico” non può che confrontarsi con la realtà fisica dell’architettura del manicomio, che Foucault descrive come dispositivo terapeutico e di potere, manifestando sfiducia nella possibilità dell’architettura di invertirne il senso e sollevando l’architetto dalle responsabilità rispetto a quei Crimini di pace di cui scrive nell’omonimo libro di Basaglia. La storia dell’ospedale goriziano sembra, in parte, confutare questa impotenza dell’architettura, raccontando quanto la negazione dell’istituzione muova anche dalla trasformazione fisica dei luoghi, in parallelo a un intenso confronto tra lo psichiatra italiano e intellettuali e architetti, soprattutto francesi. Già il primo manicomio goriziano, del 1911, nato quando Gorizia è città austroungarica, risente del ricco dibattito sviluppatosi intorno allo Steinhof viennese, in quel momento storico, descritto da Cacciari nel suo Dallo Steinhof, in cui psichiatria e architettura rappresentano due ambiti chiave nella costruzione della modernità europea. Il dibattito su libertà e controllo si addensava, allora, nello studio di variazioni di tipi di spazi interni, dalle stanze di prima classe, in cui il modello sono le camere d’albergo, ai dormitori di terza classe, fino ai camerini di contenzione o celle di isolamento. Una visione classista, che però attribuiva un ruolo allo spazio nel processo di cura. Mentre Foucault, che non prende mai in esame questi istituti, descrive la struttura spaziale del manicomio come una trasposizione del panopticon, in cui la negazione di uno spazio privato e l’azzeramento dello status sociale dell’internato sono fondamentali per l’efficacia del dispositivo. Il primo manicomio goriziano, raso al suolo dai bombardamenti della Prima guerra mondiale, è riscostruito, sullo stesso impianto planimetrico, sotto il Fascismo. Nel ‘61 vi arriva, come giovane direttore, Franco Basaglia. La mitologia cresciuta intorno alla rivoluzione basagliana, attraverso immagini di reti e cancelli divelti, ci ha tramandato la traccia di un gesto radicale, che nega qualsiasi possibilità di riforma dell’istituzione. Questo ha messo in ombra le trasformazioni del complesso progettate da Basaglia e in parte realizzate, connettendosi, in certa misura consapevolmente, alla ricerca degli studiosi austriaci sul ruolo della privacy. La riforma dell’architettura psichiatrica è trattata da Basaglia anche in diversi scritti: nel 1967 in un articolo per il numero speciale su Architettura e psichiatria, della rivista “Recherches” del gruppo CERFI di Guattari, nel 1968 nella relazione per la Commissione ministeriale per la trasformazione delle strutture ospedaliere, nel 1980, nell’introduzione di un libro su architettura e medicina. Testi dimenticati perché proprio l’esito della battaglia iniziata a Gorizia ha contribuito a interrompere quel dialogo tra architettura e psichiatria: con l’architettura per la psichiatria istituzionalizzata (messa fuori legge dalle 180) si e  cessata anche la ricerca di architettura per la salute mentale. Quel dialogo interrotto pone oggi questioni ancora aperte rispetto allo spazio di guarigione che una società produce e immagina per chi non e  considerato “sano”.
2020
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11368/2995653
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