Perché non possiamo non dirci Moderni Esimendoci dall’affrontare in questa sede le questioni legate alla progettazione e alla realizzazione dello Zen nella loro complessità, è acclarato che nelle intenzioni dei progettisti l’intervento architettonico a scala urbana avrebbe dovuto prefigurare una vera e propria parte di città capace di qualificare la crescita di Palermo. Tuttavia, pur ponendosi il problema di riportare all’interno dello Zen alcuni fattori peculiari della città storica, il desiderio di realizzare una realtà trascendente si scontrerà con una realtà contingente che porterà allo stato di degrado e isolamento in cui, purtroppo, versa il quartiere. La visione odierna dello Zen, infatti, è pressoché l’immagine di un sito archeologico, ma nonostante richiami involontariamente alla memoria una città “pietrificata”, è tragicamente priva del phatos racchiuso nella colata di cemento bianco con la quale Burri realizza, nel Grande Cretto di Gibellina, quella sorta di sudario pietosamente dispiegato per velare i resti ricomposti della vecchia trama edilizia. Il quartiere appare, suo malgrado, come una città metafisica che tuttavia non rimanda alle visioni oniriche dechirichiane, ne tanto meno alle periferie di Sironi. In una realtà quasi completamente priva di attività e servizi, a dispetto delle buone intenzioni, quello che si è venuto a creare non è naturalmente una città (non avendone i requisiti essenziali), ma nemmeno una periferia intesa come suo naturale prolungamento. Del resto, una periferia avulsa dal suo contesto naturale, la città appunto, ed in conflitto con la splendida vallata palermitana nella quale si colloca, è inevitabilmente un “non luogo” e, come direbbe Rovatti, diventa un enclave topologica. Lo Zen, difatti, appare smodato nella sua estraniazione e se si esclude la discordanza con il tempo nella sua doppia accezione, si configura come un brano estrapolato dalla Los Angeles futuribile di Blade Runner. Detto questo, è chiaro che il nostro intervento, aprendosi al confronto tra scuole, esperienze e punti di vista diversi, trova una sua giustificazione solo nella complementarità dei diversi temi di progetto. In questo caso, tuttavia, il tema dell’insula, se da una parte è oggettivamente il completamento dell’isolato di progetto, dall’altra diventa inevitabilmente, a nostro avviso, quello della risoluzione di un vuoto urbano, e come tale verrà affrontato. Bisogna inoltre premettere che il riferimento alla House for the Inhabitant Who Refused to Partecipate, il progetto veneziano di John Hejduk del 1978, all’inizio avrebbe voluto essere una citazione esplicita e di conseguenza, come tutte le citazioni, rigorosamente virgolettata, ossia riportata in quanto tale. Nelle nostre intenzioni, infatti, la casa di colui che si rifiutò di partecipare, trasposta in un contesto diverso avrebbe dovuto rappresentare un ammonimento simbolico. Una sorta di gogna civile destinata a chi rifiutandosi di partecipare alla civica condivisione del bene comune, si era reso corresponsabile del degrado generale del quartiere. Naturalmente la prerogativa di una rigorosa citazione a scopo pedagogico, alla fine si è stemperata in un sottile riferimento, una sorta di omaggio subliminale a John Hejduk attraverso l’uso figurativo della tipologia. Il riferimento palese alla Wall-house con il grande muro e i volumi aggettanti, che si rende ancora più esplicito nell’edificio centrale dove, oltre agli allineamenti degli aggetti sul fronte interno dell’isolato, la facciata esterna si risolve nella composizione tra i volumi verticali e quelli orizzontali accentuati dai vuoti tra i piani, naturalmente non vuol essere un riferimento peregrino. Al di la della specifica citazione, in realtà si è cercato di risolvere l’inserimento nel contesto architettonico, non solo attraverso la ricerca di relazioni formali (con la ripresa della griglia planimetrica, l’utilizzo dei pilastri, la netta contrapposizione tra i fronti interni e quelli esterni degli edifici o con il trattamento dei volumi che, richiamandoli senza imitarli, cercano un dialogo con quelli esistenti), bensì affidandosi a quei fattori reconditi che riconducono non tanto ai principi compositivi del progetto specifico quanto piuttosto agli archetipi che sono alla genesi di quel progetto. Infatti, se è vero come è vero che nel progetto originario del gruppo Gregotti, come ci ricorda Lovero, “Il riferimento sia a “realizzazioni” razionaliste tedesche e olandesi che a “progetti” razionalisti italiani, fu fatto coesistere con quello delle città murate della Sicilia”. E’ anche vero che John Hejduk, nel momento in cui in America e in Europa si avverte ormai il venir meno dei paradigmi del Movimento Moderno, assumendo un atteggiamento discosto dal mercato, rifiuta il successo dell’International Style ponendosi il problema di affrontare le questioni lasciate in eredità dai Maestri; guardando quindi alle avanguardie europee trasferitesi in America, sente la necessità di rivisitarne il lessico e le tecniche compositive. Pertanto, a partire dalle basi sintattiche condivise, il nostro intervento architettonico, mira a creare una sorta di contiguità proprio con questa ricerca, tentando di estenderla ad una riflessione più generale sui principi e sulle regole della composizione e, grazie al tema, sulle tecniche e sulle trasformazioni nel nostro tempo in rapporto al nostro recente passato; poiché, parafrasando, potremmo affermare crocianamente che non possiamo non dirci Moderni. Nella stesura finale del progetto, naturalmente, tutto questo insieme di fattori, si è rivelato preponderante rispetto alla necessità di rispettare rigorosamente lo specifico programma funzionale il quale, infatti, non solo ai fini della ricerca, ma soprattutto di fronte all’estrema versatilità dell’impianto compositivo e tipologico, diventa, a nostro avviso, decisamente marginale. Del resto, il sistema della tipologia riconducibile in qualche modo alla Wall-house, consente una suddivisione degli spazi interni estremamente variabile, tanto da poter ottenere, a seconda delle esigenze, non solo numerose aggregazioni con diverse combinazioni di alloggi di vario taglio, ma anche grandi spazi adattabili a differenti funzioni.

Z.05 Insulae, vincoli e preesistenze, Il completamento dell'insula 3A

GUARAGNA, GIANFRANCO
2012-01-01

Abstract

Perché non possiamo non dirci Moderni Esimendoci dall’affrontare in questa sede le questioni legate alla progettazione e alla realizzazione dello Zen nella loro complessità, è acclarato che nelle intenzioni dei progettisti l’intervento architettonico a scala urbana avrebbe dovuto prefigurare una vera e propria parte di città capace di qualificare la crescita di Palermo. Tuttavia, pur ponendosi il problema di riportare all’interno dello Zen alcuni fattori peculiari della città storica, il desiderio di realizzare una realtà trascendente si scontrerà con una realtà contingente che porterà allo stato di degrado e isolamento in cui, purtroppo, versa il quartiere. La visione odierna dello Zen, infatti, è pressoché l’immagine di un sito archeologico, ma nonostante richiami involontariamente alla memoria una città “pietrificata”, è tragicamente priva del phatos racchiuso nella colata di cemento bianco con la quale Burri realizza, nel Grande Cretto di Gibellina, quella sorta di sudario pietosamente dispiegato per velare i resti ricomposti della vecchia trama edilizia. Il quartiere appare, suo malgrado, come una città metafisica che tuttavia non rimanda alle visioni oniriche dechirichiane, ne tanto meno alle periferie di Sironi. In una realtà quasi completamente priva di attività e servizi, a dispetto delle buone intenzioni, quello che si è venuto a creare non è naturalmente una città (non avendone i requisiti essenziali), ma nemmeno una periferia intesa come suo naturale prolungamento. Del resto, una periferia avulsa dal suo contesto naturale, la città appunto, ed in conflitto con la splendida vallata palermitana nella quale si colloca, è inevitabilmente un “non luogo” e, come direbbe Rovatti, diventa un enclave topologica. Lo Zen, difatti, appare smodato nella sua estraniazione e se si esclude la discordanza con il tempo nella sua doppia accezione, si configura come un brano estrapolato dalla Los Angeles futuribile di Blade Runner. Detto questo, è chiaro che il nostro intervento, aprendosi al confronto tra scuole, esperienze e punti di vista diversi, trova una sua giustificazione solo nella complementarità dei diversi temi di progetto. In questo caso, tuttavia, il tema dell’insula, se da una parte è oggettivamente il completamento dell’isolato di progetto, dall’altra diventa inevitabilmente, a nostro avviso, quello della risoluzione di un vuoto urbano, e come tale verrà affrontato. Bisogna inoltre premettere che il riferimento alla House for the Inhabitant Who Refused to Partecipate, il progetto veneziano di John Hejduk del 1978, all’inizio avrebbe voluto essere una citazione esplicita e di conseguenza, come tutte le citazioni, rigorosamente virgolettata, ossia riportata in quanto tale. Nelle nostre intenzioni, infatti, la casa di colui che si rifiutò di partecipare, trasposta in un contesto diverso avrebbe dovuto rappresentare un ammonimento simbolico. Una sorta di gogna civile destinata a chi rifiutandosi di partecipare alla civica condivisione del bene comune, si era reso corresponsabile del degrado generale del quartiere. Naturalmente la prerogativa di una rigorosa citazione a scopo pedagogico, alla fine si è stemperata in un sottile riferimento, una sorta di omaggio subliminale a John Hejduk attraverso l’uso figurativo della tipologia. Il riferimento palese alla Wall-house con il grande muro e i volumi aggettanti, che si rende ancora più esplicito nell’edificio centrale dove, oltre agli allineamenti degli aggetti sul fronte interno dell’isolato, la facciata esterna si risolve nella composizione tra i volumi verticali e quelli orizzontali accentuati dai vuoti tra i piani, naturalmente non vuol essere un riferimento peregrino. Al di la della specifica citazione, in realtà si è cercato di risolvere l’inserimento nel contesto architettonico, non solo attraverso la ricerca di relazioni formali (con la ripresa della griglia planimetrica, l’utilizzo dei pilastri, la netta contrapposizione tra i fronti interni e quelli esterni degli edifici o con il trattamento dei volumi che, richiamandoli senza imitarli, cercano un dialogo con quelli esistenti), bensì affidandosi a quei fattori reconditi che riconducono non tanto ai principi compositivi del progetto specifico quanto piuttosto agli archetipi che sono alla genesi di quel progetto. Infatti, se è vero come è vero che nel progetto originario del gruppo Gregotti, come ci ricorda Lovero, “Il riferimento sia a “realizzazioni” razionaliste tedesche e olandesi che a “progetti” razionalisti italiani, fu fatto coesistere con quello delle città murate della Sicilia”. E’ anche vero che John Hejduk, nel momento in cui in America e in Europa si avverte ormai il venir meno dei paradigmi del Movimento Moderno, assumendo un atteggiamento discosto dal mercato, rifiuta il successo dell’International Style ponendosi il problema di affrontare le questioni lasciate in eredità dai Maestri; guardando quindi alle avanguardie europee trasferitesi in America, sente la necessità di rivisitarne il lessico e le tecniche compositive. Pertanto, a partire dalle basi sintattiche condivise, il nostro intervento architettonico, mira a creare una sorta di contiguità proprio con questa ricerca, tentando di estenderla ad una riflessione più generale sui principi e sulle regole della composizione e, grazie al tema, sulle tecniche e sulle trasformazioni nel nostro tempo in rapporto al nostro recente passato; poiché, parafrasando, potremmo affermare crocianamente che non possiamo non dirci Moderni. Nella stesura finale del progetto, naturalmente, tutto questo insieme di fattori, si è rivelato preponderante rispetto alla necessità di rispettare rigorosamente lo specifico programma funzionale il quale, infatti, non solo ai fini della ricerca, ma soprattutto di fronte all’estrema versatilità dell’impianto compositivo e tipologico, diventa, a nostro avviso, decisamente marginale. Del resto, il sistema della tipologia riconducibile in qualche modo alla Wall-house, consente una suddivisione degli spazi interni estremamente variabile, tanto da poter ottenere, a seconda delle esigenze, non solo numerose aggregazioni con diverse combinazioni di alloggi di vario taglio, ma anche grandi spazi adattabili a differenti funzioni.
2012
978-88-89440-67-4
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