La crisi economica ha avuto un risvolto positivo sul pensiero economico mainstream, quello di far serpeggiare tra gli economisti un dubbio inatteso, il fatto che la flessibilità del lavoro non costituisca la panacea di tutti i mali del sistema capitalistico moderno. Sono molti gli studi presenti in letteratura che mettono in evidenza come l’aumento della flessibilità del lavoro abbia causato una crescente disuguaglianza e un incremento del livello di povertà della popolazione, soprattutto in Paesi come l’Italia e la Spagna, dove la ricerca delle forme più spinte di flessibilità si è trasformata in flessibilizzazione selvaggia e in precarietà. Le trasformazioni sistemiche originate dalla fine del sistema fordista degli anni ’80 hanno prodotto in Italia l’aumento della parcellizzazione industriale e la crescita di un settore terziario pervaso da posti di lavoro poco qualificati e instabili. La scarsa capacità di innovazione ha fatto il resto, rendendo necessari posti di lavoro facilmente intercambiabili e a bassa produttività, con poche eccezioni. L’inevitabile conseguenza è stata l’avvio di riforme del lavoro disegnate per l’offerta di forme contrattuali a sempre più elevata flessibilità. Il lavoro mette in evidenza come le forme contrattuali flessibili siano in grado di trasformare la disoccupazione in occasioni di lavoro labili per alcune categorie di lavoratori, in particolare i nuovi entranti che tra la metà degli anni ’70 e i primi anni ‘90 non erano solo i giovani, ma anche le donne e gli immigrati. Le cause della precarietà sono quindi riconducibili al sistema produttivo e istituzionale, più che alle caratteristiche e preferenze individuali, le quali determinano invece una trappola della precarietà in assenza di un sistema di welfare efficace, come nel caso italiano. Le funzioni redistributive e assicurative dello Stato vengono assunte dalla famiglia nel nostro Paese, per cui le condizioni familiari possono costituire un’ulteriore trappola della precarietà. Il lavoratore è povero non solo a causa delle condizioni del mercato del lavoro e delle caratteristiche individuali, ma anche perché la povertà familiare non permette l’uscita dalla precarietà. L’analisi condotta sui redditi da lavoro individuali e familiari (reddito equivalente) basati sulla base di dati IT-Silc, la versione italiana dell’indagine europea sui redditi e le condizioni di vita delle famiglie, presente in questo lavoro, mette in luce che i working poor siano non solo gli individui che entrano nella trappola della precarietà contrattuale, ma quelli determinati dalle condizioni familiari (numerosità della famiglia, età media, presenza di minori o di anziani) e dalle condizioni territoriali. Si evidenzia inoltre che la transizione da forme di lavoro precarie a quelle stabili dipende fortemente dagli assetti istituzionali che i diversi Paesi sono stati in grado di assicurare a questi lavoratori . Le politiche necessarie per ridurre il precariato non possono essere, tuttavia, solo istituzionali e rivolte esclusivamente al mercato del lavoro, ma richiedono un ripensamento strutturale: politiche industriali e dell’innovazione che permettano di trattenere la ricchezza nei territori, politiche di welfare che abbiano al centro il singolo individuo e non il solo lavoratore e condizioni di politica economica europea più attente agli equilibri reali e sociali che sono quelli che garantiscono un dignitoso tasso di crescita economica.
Lavoro precario, povertà e vie d’uscita
CHIES, LAURA
2015-01-01
Abstract
La crisi economica ha avuto un risvolto positivo sul pensiero economico mainstream, quello di far serpeggiare tra gli economisti un dubbio inatteso, il fatto che la flessibilità del lavoro non costituisca la panacea di tutti i mali del sistema capitalistico moderno. Sono molti gli studi presenti in letteratura che mettono in evidenza come l’aumento della flessibilità del lavoro abbia causato una crescente disuguaglianza e un incremento del livello di povertà della popolazione, soprattutto in Paesi come l’Italia e la Spagna, dove la ricerca delle forme più spinte di flessibilità si è trasformata in flessibilizzazione selvaggia e in precarietà. Le trasformazioni sistemiche originate dalla fine del sistema fordista degli anni ’80 hanno prodotto in Italia l’aumento della parcellizzazione industriale e la crescita di un settore terziario pervaso da posti di lavoro poco qualificati e instabili. La scarsa capacità di innovazione ha fatto il resto, rendendo necessari posti di lavoro facilmente intercambiabili e a bassa produttività, con poche eccezioni. L’inevitabile conseguenza è stata l’avvio di riforme del lavoro disegnate per l’offerta di forme contrattuali a sempre più elevata flessibilità. Il lavoro mette in evidenza come le forme contrattuali flessibili siano in grado di trasformare la disoccupazione in occasioni di lavoro labili per alcune categorie di lavoratori, in particolare i nuovi entranti che tra la metà degli anni ’70 e i primi anni ‘90 non erano solo i giovani, ma anche le donne e gli immigrati. Le cause della precarietà sono quindi riconducibili al sistema produttivo e istituzionale, più che alle caratteristiche e preferenze individuali, le quali determinano invece una trappola della precarietà in assenza di un sistema di welfare efficace, come nel caso italiano. Le funzioni redistributive e assicurative dello Stato vengono assunte dalla famiglia nel nostro Paese, per cui le condizioni familiari possono costituire un’ulteriore trappola della precarietà. Il lavoratore è povero non solo a causa delle condizioni del mercato del lavoro e delle caratteristiche individuali, ma anche perché la povertà familiare non permette l’uscita dalla precarietà. L’analisi condotta sui redditi da lavoro individuali e familiari (reddito equivalente) basati sulla base di dati IT-Silc, la versione italiana dell’indagine europea sui redditi e le condizioni di vita delle famiglie, presente in questo lavoro, mette in luce che i working poor siano non solo gli individui che entrano nella trappola della precarietà contrattuale, ma quelli determinati dalle condizioni familiari (numerosità della famiglia, età media, presenza di minori o di anziani) e dalle condizioni territoriali. Si evidenzia inoltre che la transizione da forme di lavoro precarie a quelle stabili dipende fortemente dagli assetti istituzionali che i diversi Paesi sono stati in grado di assicurare a questi lavoratori . Le politiche necessarie per ridurre il precariato non possono essere, tuttavia, solo istituzionali e rivolte esclusivamente al mercato del lavoro, ma richiedono un ripensamento strutturale: politiche industriali e dell’innovazione che permettano di trattenere la ricchezza nei territori, politiche di welfare che abbiano al centro il singolo individuo e non il solo lavoratore e condizioni di politica economica europea più attente agli equilibri reali e sociali che sono quelli che garantiscono un dignitoso tasso di crescita economica.File | Dimensione | Formato | |
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