Con l’approvazione della L. 205/2017 e la sua entrata in vigore il 1° gennaio 2018 molti atenei italiani si sono attivati per realizzare i corsi intensivi di formazione, ormai noti come “corsi 60 CFU”, attraverso i quali gli educatori in servizio da almeno 3 anni ma privi del titolo di laurea L-19 (ora obbligatorio per svolgere ruoli educativi, sia nel pubblico che nel privato) possono “sanare” la loro posizione e acquisire la qualifica di “educatore socio-pedagogico”. Se da un lato questo provvedimento è stato percepito come un obbligo per i tanti educatori che garantiscono la sopravvivenza degli stessi servizi in cui sono implicati, dall’altro esso è stato accolto come una preziosa occasione di formazione ma anche di reinvestimento delle motivazioni alla base della scelta del lavoro educativo. E se da un lato l’impegno degli atenei nella predisposizione di questi percorsi è stato un unicum, specialmente per le modalità realizzative senza precedenti, date le caratteristiche dei potenziali fruitori, dall’altro tale impegno ha dato vita ad una impresa nel contempo scientifica e culturale. Il contributo vuole portare l’attenzione sulla recente storia dei corsi “60 CFU”, sulla loro genesi e sulla loro attualità (senza dimenticare che la sanatoria ha una durata triennale ed andrà a concludersi proprio con il 1° gennaio 2021) e avanzare le prime riflessioni di contenuto esperienziale a partire dall’analisi del primo percorso attivato dall’ateneo triestino nell’anno accademico 2018/2019. Coloro che, infatti, hanno concluso il percorso ottenendo la qualifica vanno a portare ora, nei contesti dell’educazione e della cura, una diversa consapevolezza del loro agire: l’attesa è che, come auspicato dalla Senatrice Iori, firmataria della prima proposta di legge sulle figure educative, tale consapevolezza porti un significativo aumento della qualità educativa nei servizi e ricada come “bene culturale” sull’intera comunità sociale.
L'impresa scientifica e culturale dei "60 CFU"
Elisabetta Madriz
2020-01-01
Abstract
Con l’approvazione della L. 205/2017 e la sua entrata in vigore il 1° gennaio 2018 molti atenei italiani si sono attivati per realizzare i corsi intensivi di formazione, ormai noti come “corsi 60 CFU”, attraverso i quali gli educatori in servizio da almeno 3 anni ma privi del titolo di laurea L-19 (ora obbligatorio per svolgere ruoli educativi, sia nel pubblico che nel privato) possono “sanare” la loro posizione e acquisire la qualifica di “educatore socio-pedagogico”. Se da un lato questo provvedimento è stato percepito come un obbligo per i tanti educatori che garantiscono la sopravvivenza degli stessi servizi in cui sono implicati, dall’altro esso è stato accolto come una preziosa occasione di formazione ma anche di reinvestimento delle motivazioni alla base della scelta del lavoro educativo. E se da un lato l’impegno degli atenei nella predisposizione di questi percorsi è stato un unicum, specialmente per le modalità realizzative senza precedenti, date le caratteristiche dei potenziali fruitori, dall’altro tale impegno ha dato vita ad una impresa nel contempo scientifica e culturale. Il contributo vuole portare l’attenzione sulla recente storia dei corsi “60 CFU”, sulla loro genesi e sulla loro attualità (senza dimenticare che la sanatoria ha una durata triennale ed andrà a concludersi proprio con il 1° gennaio 2021) e avanzare le prime riflessioni di contenuto esperienziale a partire dall’analisi del primo percorso attivato dall’ateneo triestino nell’anno accademico 2018/2019. Coloro che, infatti, hanno concluso il percorso ottenendo la qualifica vanno a portare ora, nei contesti dell’educazione e della cura, una diversa consapevolezza del loro agire: l’attesa è che, come auspicato dalla Senatrice Iori, firmataria della prima proposta di legge sulle figure educative, tale consapevolezza porti un significativo aumento della qualità educativa nei servizi e ricada come “bene culturale” sull’intera comunità sociale.File | Dimensione | Formato | |
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