Massimo Severo Giannini sosteneva che la disciplina dei beni pubblici contenuta nel codice del ‘42 sia meramente formale, a partire dalla distinzione fra beni demaniali e beni patrimoniali. I primi sono distinti, a loro volta, in demanio necessario e demanio legale e i secondi sono suddivisi in patrimoniali disponibili e patrimoniali indisponibili. Tuttavia la disciplina del codice presenta più ombre che luci e oggi non è più possibile limitarsi, in tema di individuazione dei beni pubblici, all’esame della sola normativa codicistica, e questo per almeno quattro motivi. Il primo è dovuto alla non corrispondenza della classificazione sopra esposta a una disciplina giuridica che individui, in modo unitario, il contenuto del diritto dell’ente sul bene di cui è titolare. La ragione si rinviene nella diversità dei soggetti titolari dei beni e, in particolare, della rispettiva sfera di poteri, sicché l’elemento soggettivo del rapporto giuridico tra autorità, collettività degli interessati alle utilità della cosa e bene pubblico, influenza e condiziona, in misura preponderante, i connotati della proprietà pubblica. Il secondo è determinato dai cambiamenti tecnologici ed economici verificatisi fra il 1942 e oggi che hanno reso particolarmente obsoleta la parte del Codice Civile relativa ai beni pubblici essenzialmente “fisici”. Il terzo motivo è ispirato da una nuova filosofia nella gestione del patrimonio pubblico improntata a criteri di efficienza e nella destinazione di garanzia a fronte delle difficoltà e degli squilibri in cui si trova gran parte dei bilanci pubblici europei. Il quarto motivo è dato dall’emersione e dal riconoscimento giuridico di interessi collettivi non meno forti di quelli alla fruizione collettiva dei beni pubblici. Anzi, questi nuovi interessi si sono visti riconoscere un rango superiore, perché sono stati canonizzati persino a livello mondiale. Questi fattori di cambiamento mettono in luce l’età avanzata delle poche disposizioni del codice civile sui beni pubblici – nate morte, secondo alcuni - e anche il carattere arcaico della restante disciplina, sia essa quella di settore, sia essa quella della normativa sulla contabilità e sul patrimonio. Ad esempio, la normativa contabile sul patrimonio almeno fino agli anni Novanta del precedente Secolo presentava un grosso limite. Questo limite era individuato nel fatto che il patrimonio dell’ente era visto come il patrimonio dell’ente – persona e non dell’ente – comunità/collettività. L’ente era riguardato più con un’ottica (classica) di tipo giuridico che non con rispetto alla sua azione. Invece, è l’azione a essere senza dubbio la più rilevante, in particolare, con riferimento alle funzioni di bilancio e di rendiconto. Ora si può, infatti, rilevare come nell’ambito dell’ordinamento contabile, che non è più chiuso in sé stesso, ma intercomunicante, si stia sviluppando, con non poche difficoltà, una nuova visione del patrimonio pubblico basata sul “principio economico del costo - opportunità”. La recente evoluzione legislativa contabile (a partire dalla riforma del bilancio del 1997 ad opera della 94) introduce nel vivo un principio che investe gran parte dei beni appartenenti allo Stato e di qualsiasi categoria di appartenenza, che è quello della valorizzazione dei beni pubblici sotto l’aspetto della concentrazione sull’azione dell’ente e non solo sull’ente stesso. Detto principio è frutto del ripensamento della teoria sui beni pubblici nel momento in cui l’aspetto dei beni pubblici non è visto (esclusivamente) in termini di titolarità (cioè chi sia il proprietario della cosa). Il pensiero non va portato solo in relazione alle cose in sé, quanto in relazione alle utilità che dalla cosa possono generarsi. Pertanto, l’analisi del quadro tradizionale dei beni pubblici va fatta in modo critico tenendo conto delle intrinseche incongruenze e dell’inadeguatezza rispetto alla moderna realtà dei beni e dell’azione amministrativa. In assenza di una compiuta disciplina, per altro già abbozzata dalla Commissione Rodotà, risulta indispensabile integrare l’insufficiente normativa del codice civile con altre fonti dell’ordinamento e specificamente con le (successive) norme costituzionali. Quest’operazione è possibile solo là dove si abbandona il percorso classico che va dai regimi ai beni e s’imbocca il percorso inverso, cioè dai beni al regime, analizzando la rilevanza economica e sociale dei beni, materiali e immateriali, e così si considera i beni in base alle utilità prodotte, tenendo in alta considerazione i principi e le norme costituzionali – sopravvenuti al codice civile – e collegando le utilità dei beni alla tutela dei diritti della persona e di interessi pubblici essenziali.

I beni funzionali agli interessi della collettività: il caso della Laguna di Venezia e delle sue valli da pesca

CRISMANI, ANDREA
2011-01-01

Abstract

Massimo Severo Giannini sosteneva che la disciplina dei beni pubblici contenuta nel codice del ‘42 sia meramente formale, a partire dalla distinzione fra beni demaniali e beni patrimoniali. I primi sono distinti, a loro volta, in demanio necessario e demanio legale e i secondi sono suddivisi in patrimoniali disponibili e patrimoniali indisponibili. Tuttavia la disciplina del codice presenta più ombre che luci e oggi non è più possibile limitarsi, in tema di individuazione dei beni pubblici, all’esame della sola normativa codicistica, e questo per almeno quattro motivi. Il primo è dovuto alla non corrispondenza della classificazione sopra esposta a una disciplina giuridica che individui, in modo unitario, il contenuto del diritto dell’ente sul bene di cui è titolare. La ragione si rinviene nella diversità dei soggetti titolari dei beni e, in particolare, della rispettiva sfera di poteri, sicché l’elemento soggettivo del rapporto giuridico tra autorità, collettività degli interessati alle utilità della cosa e bene pubblico, influenza e condiziona, in misura preponderante, i connotati della proprietà pubblica. Il secondo è determinato dai cambiamenti tecnologici ed economici verificatisi fra il 1942 e oggi che hanno reso particolarmente obsoleta la parte del Codice Civile relativa ai beni pubblici essenzialmente “fisici”. Il terzo motivo è ispirato da una nuova filosofia nella gestione del patrimonio pubblico improntata a criteri di efficienza e nella destinazione di garanzia a fronte delle difficoltà e degli squilibri in cui si trova gran parte dei bilanci pubblici europei. Il quarto motivo è dato dall’emersione e dal riconoscimento giuridico di interessi collettivi non meno forti di quelli alla fruizione collettiva dei beni pubblici. Anzi, questi nuovi interessi si sono visti riconoscere un rango superiore, perché sono stati canonizzati persino a livello mondiale. Questi fattori di cambiamento mettono in luce l’età avanzata delle poche disposizioni del codice civile sui beni pubblici – nate morte, secondo alcuni - e anche il carattere arcaico della restante disciplina, sia essa quella di settore, sia essa quella della normativa sulla contabilità e sul patrimonio. Ad esempio, la normativa contabile sul patrimonio almeno fino agli anni Novanta del precedente Secolo presentava un grosso limite. Questo limite era individuato nel fatto che il patrimonio dell’ente era visto come il patrimonio dell’ente – persona e non dell’ente – comunità/collettività. L’ente era riguardato più con un’ottica (classica) di tipo giuridico che non con rispetto alla sua azione. Invece, è l’azione a essere senza dubbio la più rilevante, in particolare, con riferimento alle funzioni di bilancio e di rendiconto. Ora si può, infatti, rilevare come nell’ambito dell’ordinamento contabile, che non è più chiuso in sé stesso, ma intercomunicante, si stia sviluppando, con non poche difficoltà, una nuova visione del patrimonio pubblico basata sul “principio economico del costo - opportunità”. La recente evoluzione legislativa contabile (a partire dalla riforma del bilancio del 1997 ad opera della 94) introduce nel vivo un principio che investe gran parte dei beni appartenenti allo Stato e di qualsiasi categoria di appartenenza, che è quello della valorizzazione dei beni pubblici sotto l’aspetto della concentrazione sull’azione dell’ente e non solo sull’ente stesso. Detto principio è frutto del ripensamento della teoria sui beni pubblici nel momento in cui l’aspetto dei beni pubblici non è visto (esclusivamente) in termini di titolarità (cioè chi sia il proprietario della cosa). Il pensiero non va portato solo in relazione alle cose in sé, quanto in relazione alle utilità che dalla cosa possono generarsi. Pertanto, l’analisi del quadro tradizionale dei beni pubblici va fatta in modo critico tenendo conto delle intrinseche incongruenze e dell’inadeguatezza rispetto alla moderna realtà dei beni e dell’azione amministrativa. In assenza di una compiuta disciplina, per altro già abbozzata dalla Commissione Rodotà, risulta indispensabile integrare l’insufficiente normativa del codice civile con altre fonti dell’ordinamento e specificamente con le (successive) norme costituzionali. Quest’operazione è possibile solo là dove si abbandona il percorso classico che va dai regimi ai beni e s’imbocca il percorso inverso, cioè dai beni al regime, analizzando la rilevanza economica e sociale dei beni, materiali e immateriali, e così si considera i beni in base alle utilità prodotte, tenendo in alta considerazione i principi e le norme costituzionali – sopravvenuti al codice civile – e collegando le utilità dei beni alla tutela dei diritti della persona e di interessi pubblici essenziali.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11368/2629083
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