Un rapido miglioramento degli standard di vita e la presenza di una classe media con un crescente potere d’acquisto sono caratteristiche che rendono i Paesi emergenti destinazioni sempre più attraenti per le imprese occidentali (Cavusgil, Knigt e Riesenberger, 2012). Tuttavia, l’alta attratti-vità di queste aree si scontra con le elevate difficoltà che le imprese incon-trano nel tradurre le potenzialità in performance positive (Bertoli, 2011). Negli ultimi anni si è sviluppata una vasta letteratura volta ad analizzare le ragioni di tali problematicità. Arnold e Quelch (1998) sostengono che le imprese occidentali devono affrontare un contesto caratterizzato da unfa-miliar conditions and problems. Khanna e Palepu (1997) affermano che le imprese estere che vogliono operare nei Paesi emergenti non solo devono affrontare quella “distanza psicologica” normalmente associata a qualsiasi processo d’internazionalizzazione, ma devono imparare a gestire un conte-sto istituzionale profondamente complesso oltre che distante da quello tipi-co riscontrabile nei Paesi “avanzati” (come Europa e Stati Uniti). A questo si aggiungono le difficoltà connesse alle differenze di gusto, di cultura e di comportamento dei consumatori locali, una variabile che incide profonda-mente sui modelli di business e sui processi di vendita, realizzabili nei mercati emergenti (Wright et al., 2005; Pellicelli, 2010; Akbar, Bortoluzzi e Tracogna, 2014). Per gli studiosi d’impresa diventa, quindi, interessante realizzare indagini empiriche, da un lato, per comprendere se le teorie esi-stenti forniscono delle utili (e ancora valide) chiavi di lettura (Burgess e Steenkamp, 2006) e, dall’altro, per individuare le eventuali specificità e problematicità connesse all’internazionalizzazione in queste aree. Questo invito è stato accolto da molti ricercatori sia in ambito interna-zionale che nazionale. Focalizzandoci sull’ambito nazionale, alcuni studi si sono concentrati sugli investimenti diretti esteri (Mariotti e Mutinelli, 2005), altri sulle opportunità connesse alle politiche di approvvigionamen-to (Nassimbeni e Sartor, 2006), altri ancora hanno indagato gli aspetti commerciali (Navaretti et al, 2012; Bortoluzzi, Chiarvesio e Tabacco, 2014; Vianelli, de Luca e Pegan, 2012). Il metodo del case study è stato utilizzato diffusamente al fine di esaminare in profondità l’internazionalizzazione delle imprese nei mercati emergenti (fra questi: Bertoli e Pittella, 2009; Bortoluzzi, Chiarvesio e Tabacco, 2012). Molte di queste ricerche confermano che anche per le imprese del made in Italy – con la sola eccezione delle imprese dell’automazione-meccanica − è anco-ra molto difficile trasformare i clienti potenziali in clienti effettivi (Vesco-vi, 2011), anche quando possono contare su un effetto positivo associato al country of origin (Balboni, Bortoluzzi e Grandinetti, 2011; Bertoli e Re-sciniti, 2013) e, contrariamente alle attese, anche per i prodotti del lusso (Bettiol et al., 2013). Nonostante la copiosità di studi, mancano tuttora dati quantitativi piut-tosto basilari, relativi ad esempio alla numerosità e alle caratteristiche delle imprese che esportano in queste aree. Questo contributo al tema monogra-fico si propone di contribuire a colmare questo gap, focalizzandosi sulle imprese del Nord Est. Più precisamente, dopo aver presentato alcuni dati sull’entità e sulle motivazioni della presenza del campione esaminato nei mercati emergenti, andremo a sintetizzare alcune evidenze su aspetti che la letteratura ha rilevato essere critici per esportazione in queste aree, come il livello di adattamento delle politiche di marketing (Arnold e Quelch, 1998; Dawar e Chattopadhyay, 2002) e il profilo del partner locale (Dong, Tse e Hung, 2010).

Le imprese del nord est alla conquista dei mercati emergenti

BORTOLUZZI, GUIDO;
2014-01-01

Abstract

Un rapido miglioramento degli standard di vita e la presenza di una classe media con un crescente potere d’acquisto sono caratteristiche che rendono i Paesi emergenti destinazioni sempre più attraenti per le imprese occidentali (Cavusgil, Knigt e Riesenberger, 2012). Tuttavia, l’alta attratti-vità di queste aree si scontra con le elevate difficoltà che le imprese incon-trano nel tradurre le potenzialità in performance positive (Bertoli, 2011). Negli ultimi anni si è sviluppata una vasta letteratura volta ad analizzare le ragioni di tali problematicità. Arnold e Quelch (1998) sostengono che le imprese occidentali devono affrontare un contesto caratterizzato da unfa-miliar conditions and problems. Khanna e Palepu (1997) affermano che le imprese estere che vogliono operare nei Paesi emergenti non solo devono affrontare quella “distanza psicologica” normalmente associata a qualsiasi processo d’internazionalizzazione, ma devono imparare a gestire un conte-sto istituzionale profondamente complesso oltre che distante da quello tipi-co riscontrabile nei Paesi “avanzati” (come Europa e Stati Uniti). A questo si aggiungono le difficoltà connesse alle differenze di gusto, di cultura e di comportamento dei consumatori locali, una variabile che incide profonda-mente sui modelli di business e sui processi di vendita, realizzabili nei mercati emergenti (Wright et al., 2005; Pellicelli, 2010; Akbar, Bortoluzzi e Tracogna, 2014). Per gli studiosi d’impresa diventa, quindi, interessante realizzare indagini empiriche, da un lato, per comprendere se le teorie esi-stenti forniscono delle utili (e ancora valide) chiavi di lettura (Burgess e Steenkamp, 2006) e, dall’altro, per individuare le eventuali specificità e problematicità connesse all’internazionalizzazione in queste aree. Questo invito è stato accolto da molti ricercatori sia in ambito interna-zionale che nazionale. Focalizzandoci sull’ambito nazionale, alcuni studi si sono concentrati sugli investimenti diretti esteri (Mariotti e Mutinelli, 2005), altri sulle opportunità connesse alle politiche di approvvigionamen-to (Nassimbeni e Sartor, 2006), altri ancora hanno indagato gli aspetti commerciali (Navaretti et al, 2012; Bortoluzzi, Chiarvesio e Tabacco, 2014; Vianelli, de Luca e Pegan, 2012). Il metodo del case study è stato utilizzato diffusamente al fine di esaminare in profondità l’internazionalizzazione delle imprese nei mercati emergenti (fra questi: Bertoli e Pittella, 2009; Bortoluzzi, Chiarvesio e Tabacco, 2012). Molte di queste ricerche confermano che anche per le imprese del made in Italy – con la sola eccezione delle imprese dell’automazione-meccanica − è anco-ra molto difficile trasformare i clienti potenziali in clienti effettivi (Vesco-vi, 2011), anche quando possono contare su un effetto positivo associato al country of origin (Balboni, Bortoluzzi e Grandinetti, 2011; Bertoli e Re-sciniti, 2013) e, contrariamente alle attese, anche per i prodotti del lusso (Bettiol et al., 2013). Nonostante la copiosità di studi, mancano tuttora dati quantitativi piut-tosto basilari, relativi ad esempio alla numerosità e alle caratteristiche delle imprese che esportano in queste aree. Questo contributo al tema monogra-fico si propone di contribuire a colmare questo gap, focalizzandosi sulle imprese del Nord Est. Più precisamente, dopo aver presentato alcuni dati sull’entità e sulle motivazioni della presenza del campione esaminato nei mercati emergenti, andremo a sintetizzare alcune evidenze su aspetti che la letteratura ha rilevato essere critici per esportazione in queste aree, come il livello di adattamento delle politiche di marketing (Arnold e Quelch, 1998; Dawar e Chattopadhyay, 2002) e il profilo del partner locale (Dong, Tse e Hung, 2010).
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